In quest’articolo discutiamo di alcune possibilità che un’impresa straniera ha a propria disposizione per espandersi sul mercato americano (con particolare attenzione, ovviamente, al caso di un’impresa italiana interessata a espandersi in USA).
In particolare, parleremo dell’investimento diretto all’estero (nel nostro caso, investimento diretto negli Stati Uniti – IDE in italiano e FDI, Foreign Direct Investments in Inglese) ossia quella forma di internazionalizzazione dell’impresa che consiste nell’acquisizione di una società americana (o fusione con società americana) ovvero nella formazione di una società negli Stati Uniti. Parleremo anche – e ne parleremo in questa prima parte – di possibili soluzione alternative all’investimento diretto.
La scelta tra IDE e soluzioni alternative dipende in primo luogo dal capitale che si ha a disposizione. Un IDE, infatti, è una soluzione che richiede un certo capitale a disposizione. L’ammontare minimo per un IDE dipende dal settore (più basso nei servizi e più elevato per esempio nel settore meccanico o manifatturiero), tuttavia generalmente US$ 200,000 è considerata la soglia minima per un investimento diretto. Ma ciò non basta: ammesso che l’impresa straniera abbia capitale a disposizione, si dovrà guardare se il capitale può rimanere investito negli Stati Uniti nel medio/lungo periodo oppure se, per esempio, gli investitori necessitano di rientrare del capitale a breve termine; in quest’ultimo caso l’IDE non è solitamente una strada percorribile ed è opportuno valutare delle soluzioni alternative.
La scelta tra IDE e soluzioni alternative – a parte dipendere da questioni peculiari alla industry in cui si opera (delle quali ovviamente non possiamo trattare) – dipende da altre considerazioni, non ultime questioni di immigration: qualora l’imprenditore ovvero qualcuno del personale dell’impresa intenda trasferirsi negli Stati Uniti, l’IDE è spesso l’unica vera opzione (e questo solo se l’IDE è di una certa entità), perché le soluzioni alternative all’investimento non consentono generalmente di ottenere alcun immigration status.
Ciò detto: quali sono le alternative ad un investimento diretto? E come può un’impresa italiana espandersi sul mercato americano senza ricorrere all’IDE? Senza presunzioni di esaurire il novero delle alternative, intendiamo accennare a quattro soluzioni che possono consentire l’espansione sul mercato americano: la licenza di distribuzione (distributorship), il contratto di agenzia (sales agency agreement), la joint venture e il franchising.
La distributorship (concessione di licenza di distribuzione) ha un contenuto variegato, tuttavia, si può dire che generalmente è quel contratto con cui i prodotti o servizi della società straniera arrivano sul mercato americano tramite un distributore (distributor) che in genere li acquista a un prezzo vicino a quello di produzione e li vende ad altri operatori commerciali ad un prezzo più alto, così da coprire i propri costi e realizzare un profitto. Con questa soluzione, la società straniera otterrà un ricavo immediato, ma non manterrà il controllo sulle attività del distributore, che potrà distribuire i beni secondo il proprio libero apprezzamento. Occorre considerare che secondo la legge americana, la società straniera può anche decidere di strutturare la distributorship come consignment, cioè in conto vendita: tuttavia questa è una pratica rischiosa sia in termini di pagamento e di recupero delle merci, che in termini fiscali.
La distributorship comporta, in linea generale, almeno tre problematiche: (i) localizzazione del distributore e capacità di distribuzione. È spesso un elemento chiave. Se il distributore è ubicato in uno stato americano poco centrale come, per esempio, la parte nord est del Maine, potrebbe essere difficile per questo distributore coprire l’intero territorio americano. E ancora: si vuole distribuire anche in Canada? In questo caso suggeriamo di valutare se il distributore possegga i requisiti necessari per operare anche in tale paese; (ii) esclusività o meno della concessione in distribuzione. Sarà necessario valutare se si voglia un rapporto in esclusiva e negoziare chi sia la parte che dovrà rispettare tale obbligo. Com’e’ ovvio, la mancanza di “copertura” del distributore è particolarmente problematica se si è pattuito un diritto di esclusiva con questo distributore per tutti gli Stati Uniti; (iii) specializzazione. Occorre valutare attentamente quale sia la specializzazione del distributore, il quale per esempio potrebbe essere specializzato in grandi retailers, come Macy’s o Nordstrom, oppure retailers di medie dimensioni. È necessario valutare se questo tipo di specializzazione sia proprio quella che la società straniera desidera per i propri prodotti.
Con un sale agency agreement la società straniera nomina un agente americano con il compito di concludere contratti di vendita di beni o servizi del preponente sul mercato americano. L’agente americano opererà per conto del soggetto estero. Generalmente l’agente americano è un semplice intermediario che ottiene una commissione sui contratti conclusi. Con l’agenzia la società estera manterrà un certo controllo sull’operato dell’agente, ma naturalmente assumerà maggiori rischi rispetto ad una distributorship. Ed anche il controllo sull’operato dell’agente potrebbe risultare difficile, considerata la distanza fisica che separa le due parti, la mancanza di conoscenza del mercato americano da parte della società estera e la differente regolamentazione.
Entrambe le suddette alternative all’IDE, oltre a necessitare un investimento minore, presentano alcuni vantaggi, ma come diremo, essi sono più apparenti che reali: (i) Gestione del personale – Con una distributorship o un sale agency agreement non esiste il problema di gestione del personale. Attenzione però: se l’agente è una persona fisica, una riqualificazione come dipendente (employee) è un rischio reale, nel quale caso ovviamente non si evita la questione del personale. Il problema della riqualificazione non si risolve semplicemente indicando nel contratto che l’agente non è dipendente dell’impresa, perché si deve guardare alla sostanza del rapporto. Il rischio di avere individui che concludono affari negli Stati Uniti per un’impresa straniera, in certi casi, è così elevato da consigliare la formazione di una subsidiary che assumerà questi agenti; (ii) Vantaggio fiscale – probabilmente (l’avverbio è d’obbligo) con nessuna delle due soluzioni la società straniera è soggetta ad imposte societarie. Tuttavia, se – contrariamente agli intenti – si dovesse configurare una stabile organizzazione (permanent establishment – PE) negli Stati Uniti, come definita dai trattati contro le doppie imposizioni (o anche in assenza di trattato), la società straniera si troverebbe nella situazione di doing business negli Stati Uniti, così come inteso a livello di imposte federali, statali e locali, con tutte le conseguenze fiscali che ne derivano e che non possiamo discutere in questa sede. Infatti la maggior parte dei trattati contro le doppie imposizioni (come quello tra Stati Uniti e Italia) esentano da imposte federali sul reddito le società e gli individui residenti nell’altro stato contraente (per esempio residenti in Italia), non aventi una stabile organizzazione negli Stati Uniti. Ecco perché abbiamo detto che il vantaggio della distribuzione e del contratto di agenzia è che la società straniera “dovrebbe” essere esente da imposte sul reddito. Tuttavia è assai facile cadere nella situazione di stabile organizzazione (PE), definita come la situazione di quelle imprese straniere aventi una sede d’affari fissa negli Stati Uniti, come un punto gestionale, una succursale, un ufficio, uno stabilimento, un magazzino utilizzati per condurre business negli Stati Uniti (si pensi al caso di un preponente straniero che effettui stoccaggio presso l’agente). Si noti che i trattati contro le doppie imposizioni esentano le società non aventi una stabile organizzazione (PE) da tassazione federale, ma l’esenzione non vale per le imposte statali e locali (ed ogni stato ha una normativa diversa per l’identificazione delle società facenti business nel suo territorio e quindi soggette a tassazione).
Abbiamo appena visto come i due vantaggi della distributorship e del sale agency agreement siano in realtà più apparenti che reali. Occorre adesso considerare gli svantaggi del contratto di distribuzione e di agenzia. Le conseguenze negative comprendono (e l’elenco è lungi dall’essere esaustivo): (i) un ritorno minore per l’impresa; (ii) possibili contenziosi in materia di proprietà intellettuale; (iii) la circostanza che l’immagine acquisita dal prodotto nel nuovo mercato dipenderà da come il distributore o l’agente gestisce la vendita del prodotto; (iv) inesistenza di barriere contro contenziosi verso l’impresa straniera, barriere che invece esistono laddove si operi sul mercato americano attraverso una società controllata. E non si creda che un’impresa straniera non sia soggetta a giurisdizione americana, solo perché non ha una sede negli Stati Uniti. A differenza di quanto accade generalmente nei paesi di civil law, negli Stati Uniti è piuttosto agevole per un attore chiamare in giudizio un convenuto non residente. La giurisdizione, infatti, non è basata sulla residenza del convenuto, bensì su un complesso di minimum contacts (contatti minimi, a volte irrisori, come ad esempio l’utilizzo da parte del convenuto del sistema bancario americano anche per operazioni del tutto separate) tra il convenuto e lo stato in cui il convenuto è chiamato in giudizio.
Infine (ma come abbiamo detto, l’elenco degli svantaggi non è esaustivo), si noti che né l’aver instaurato un rapporto di distribuzione né l’avere agenti negli Stati Uniti comporta alcun beneficio in punto di immigration.
Un’altra alternativa all’IDE consiste nella costituzione di una joint venture. In questo caso, l’impresa straniera si accorda con un’impresa americana sottoscrivendo un contratto con cui ci s’impegna a collaborare nella realizzazione di un determinato progetto, onde condividerne i rischi e sfruttare le reciproche competenze. (Parliamo qui della c.d. joint venture contrattuale (contractual joint venture), cioè senza formazione di un veicolo societario e non della c.d. corporate joint venture, con formazione di nuova società perché’ il secondo tipo è, in fondo, un IDE).
Ancorché l’accordarsi con un partner locale sembri una buona soluzione, questa struttura nella pratica crea tra i soci molte situazioni di conflitto di non facile risoluzione. Il principale problema è il fattore umano nell’integrazione delle risorse e nella condivisione di conoscenze. Ma la condivisione dei costi e il perseguimento degli obiettivi (a volte non ben specificati, per esempio “riduzione della concorrenza sul mercato”) sono anche criticità. Anche la protezione e titolarità della proprietà industriale e intellettuale sviluppata nel corso del contratto può divenire motivo di contenzioso. Non vi sono dati ufficiali, ma sembra che il 60% delle joint venture fallisca nei primi 5 anni. Quindi forse la joint venture non è una buona soluzione, eccetto nel settore delle costruzioni o in tutti quegli ambiti in cui la società straniera si propone il raggiungimento di un obiettivo specifico (come per la costruzione di un ospedale, per esempio).
Sotto il profilo della questione “immigration”, la costituzione di una joint venture non conferisce automaticamente il diritto di ottenere un visto per i cittadini stranieri. È necessario verificare in capo a quale socio sia la direzione e il controllo del progetto – cosa spesso non chiara per via della struttura dell’accordo — e verificare, visto per visto, se la joint venture sia ammessa oppure no.
Infine il franchising, che potrebbe costituire una buona opzione per espandersi sul mercato USA. In generale, con il contratto di franchising il titolare del marchio (nel nostro caso l’impresa straniera) concede il diritto di sfruttamento economico dello stesso a un terzo. Non si può fare che un cenno al franchising, essendo la materia specialissima e soggetta a una regolamentazione federale (FTC Franchise Rule) e una disciplina diversa e minuziosa in ciascun stato americano (ad esempio, si veda le New York State Franchise Regulations), le quali sono incentrate sulla finalità di predisporre un’adeguata tutela del contraente debole (che non è l’impresa straniera, come si capisce). Il mercato USA del franchising è il più grande al mondo, ma è zeppo di insidie per un franchisor straniero che abbia scarsa conoscenza del mercato, del sistema legale e della cultura degli Stati Uniti. Si pensi al fatto che qui la propensione alla lite è altissima.
La conseguenza di cio’ è che se un’impresa straniera vuole utilizzare il franchising, dovra’ dedicare tempo e risorse per effettuare un accurato studio del mercato e del sistema legale americano (legge federale e statale). Forte di questa conoscenza dovrà poi procedere a strutturare e disciplinare minutamente il rapporto di franchising.
Una notazione in punto di immigration: la concessione di un visto in conseguenza dell’instaurazione di questa tipologia di relazione, non e’ impossibile, ma uno studio di ciascun caso concreto è imprescindibile onde valutare con attenzione la struttura societaria che si pone in essere.
Per maggiori informazioni, contattare Francesca Giannoni-Crystal